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RISORGIMENTO INSANGUINATO - PARTE I - Eccidi e inganni dell'Unità d'Italia

Di Antonella Randazzo

07 agosto 2007

Esistono retoriche e simbologie assai efficaci a catturare l'animo umano. Fra queste, la retorica delle guerre patriottiche e nazionalistiche, che si basa sul racconto di eventi storici che suscitano orgoglio, commozione e senso di trascendenza morale. Per ottenere questo risultato, le autorità si mostrano disposte anche a mistificare gravemente i fatti, creando falsi eroi e false imprese eroiche. E' il caso degli eventi che portarono all'Unità d'Italia, passati alla Storia come "Risorgimento italiano". A scuola ci hanno raccontato che all'epoca gli italiani elaborarono diversi piani ideologici per raggiungere la tanto desiderata unità nazionale, e che personaggi illustri, come Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Camillo Benso di Cavour e Vittorio Emanuele II, in perfetta sintonia con ciò che gli italiani volevano, operarono per unire il paese dopo secoli di dominazione straniera. Il periodo risorgimentale emerge dunque come un momento storico ricco di idee che infervorarono gli animi degli italiani, che praticamente all'unanimità desiderarono porsi sotto l'autorevole potere dei Savoia. Tutto questo è molto commovente e lusinghiero, peccato che sia frutto di una mistificazione degli eventi reali.
In realtà l'Unità d'Italia fu un evento voluto "dall'alto", ossia dalle autorità dei paesi egemoni (Inghilterra e Francia), e i Savoia non guardarono tanto all'interesse e alla volontà della popolazione quanto ai vantaggi personali e a quelli dell'élite a cui appartenevano.
Anche all'epoca dei fatti c'erano molte persone che nutrivano dubbi sull'idea che Cavour o Vittorio Emanuele II avessero a cuore le genti del meridione d'Italia. Si raccontava che Cavour, che non era mai stato nel sud Italia, avesse riferito in Parlamento "non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco egli conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra". (1) Anche Bixio non aveva mostrato molta considerazione per la Sicilia, quando aveva scritto alla moglie: "(La Sicilia) è un paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili".(2)
Di certo, sia Cavour che Vittorio Emanuele II non avevano alcun interesse a migliorare le condizioni del sud Italia, mentre ne avevano parecchio a difendere gli interessi dei proprietari terrieri e dell'oligarchia dominante. Lo stesso Cavour apparteneva alla ricca classe nobiliare terriera piemontese.
L'Inghilterra iniziò ad imporre il suo potere nel Mediterraneo in seguito alle guerre napoleoniche, e aveva l'obiettivo di accrescere il suo dominio. I Borbone non si erano sempre mostrati completamente sottomessi alle autorità inglesi, e desideravano concludere accordi con l'Impero Russo, che voleva avere una base navale nel Mediterraneo. Anche la Francia mirava ad accrescere il proprio potere sull'Italia, creando un protettorato sullo Stato Pontificio e mettendo un principe francese nelle Due Sicilie.
Le due potenze decisero dunque di appoggiare il progetto dell'Unità d'Italia sotto il potere Sabaudo, seppure con obiettivi diversi o contrastanti.
A partire dal 1848, la Gran Bretagna dette ingenti prestiti ai Savoia, per intraprendere le guerre di unificazione nazionale. In quel periodo gli inglesi parlavano della famiglia borbonica in modo assai sprezzante. Ferdinando II (morto nel 1859) e Francesco II venivano descritti come tiranni dalla propaganda britannica, allo stesso modo in cui gli Usa descrissero Saddam Hussein nella propaganda precedente all’invasione dell’Iraq. L’intenzione di spodestarli risultava sempre più chiara. A tale scopo gli inglesi corruppero alcuni dei generali borbonici, come il generale Francesco Landi. Nel maggio del 1863, Lord Henry Lennox dirà alla Camera dei Lords che in realtà era stata l’Inghilterra a realizzare l’Unità d’Italia, più che Garibaldi.
Il piano Risorgimentale fu preparato con precisione e accuratezza, nulla fu lasciato al caso. Per meglio coordinare gli uomini coinvolti furono utilizzate le logge massoniche. Lo storico Salvatore Lupo sostiene che "durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria".(3) Le logge massoniche coinvolsero tutti i maggiori protagonisti dell’Unità d’Italia, compreso Garibaldi.
Le logge si occuparono anche di organizzare la propaganda per coinvolgere quante più persone possibile, convincendo a credere che il potere sabaudo sarebbe stato rispettoso dell'identità nazionale e dei diritti di tutti i cittadini.
Iniziarono a circolare idee propagandistiche sul nazionalismo dei popoli e sulla libertà dallo straniero, che praticava un "dispotismo oppressivo" attraverso i governi imposti dall'Austria e dai Borbone.
Il concetto politico di "nazione", elaborato nel secolo precedente, era assai efficace perché toccava corde emotive molto profonde, e induceva a credere che attraverso lotte armate si potesse conquistare la libertà. In tal modo si istigavano le masse alla sollevazione, controllando dall'alto l'esito e orientando i popoli verso idee "liberali". L'inganno consisteva nel far credere di lottare per la libertà, mentre in realtà si trattava di seguire chi avrebbe imposto un nuovo sistema di potere.
Nonostante la massiccia propaganda fatta tramite pubblicazioni, giornali e opuscoli, moltissime persone rimasero diffidenti e altre avversarono apertamente il processo di unificazione dell'Italia. Specie in alcune regioni, come la Campania, la Calabria e la Sicilia, si ebbe una guerra aperta contro il nuovo potere, che durò oltre dieci anni e si concluse con la capitolazione del popolo e una serie innumerevole di violenze e massacri, ad oggi non chiariti o insabbiati.
Il Regno Sabaudo, come altri, si era fortemente indebitato coi Rothschild e altre famiglie di banchieri, e tale debito lo poneva in posizione di debolezza verso la volontà del gruppo che deteneva il potere finanziario. In altre parole, i Savoia dovevano dar conto a chi aveva nelle mani la gestione delle risorse finanziarie. Agendo in totale armonia con l'interesse di questi personaggi la casa Savoia avrebbe avuto ulteriori prestiti e vantaggi, al contrario, se avesse sfidato tale oligarchia non avrebbe potuto estendere il proprio potere sull'Italia, essendo privata dell'appoggio finanziario e militare.
Prima dell'Unità d'Italia la situazione economico-finanziaria dei Savoia versava in gravi, condizioni, e l'occupazione dell'intera penisola avrebbe permesso loro di mettere le mani sulle banche e sulle ricchezze delle regioni occupate.
Il nord Italia, al contrario di ciò che viene detto su molti libri di Storia, prima dell'Unità d'Italia aveva risorse assai modeste. In Piemonte c'erano soltanto poche Casse di risparmio e i Monti di Pietà e il commercio era assai modesto. In Lombardia non c'era nessuna banca di emissione e le esigue attività commerciali si valevano della banca austriaca. Se non vi fosse stata l'occupazione del sud e il successivo sfruttamento coloniale, probabilmente, non sarebbero sorte le grandi industrie del nord, create da famiglie appartenenti all'élite dominante.
Il paese, dopo l'Unità, sarà reso disomogeneo e diseguale. L’unificazione politica avrebbe costretto l’industria del sud a rinunciare ad ogni protezionismo, indebolendosi e avvantaggiando lo sviluppo di quella del nord. Il sistema economico era strutturato in modo da far soccombere il più debole, come ebbe ad osservare il 25 maggio del 1861, il deputato Giuseppe Polsinelli, industriale nel settore laniero, durante una seduta in Parlamento: "La Francia e l’Inghilterra predicano il libero scambio, dopo aver avuto per secoli una copertura grandissima, e la Francia anche la proibizione. Esse dicono a noi: facciamo liberamente il commercio, apriteci il vostro mercato. Ma questa, o signori, è la lotta di un gigante con un bambino".
L'11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala, favoriti dalle navi della flotta inglese "Intrepid" e "H.M.S. Argus", ormeggiate nel porto di Marsala (la flotta borbonica non avrebbe mai attaccato gli inglesi). Fra i Mille c'erano diversi delinquenti comuni. Garibaldi aveva scritto: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini e criminali di ogni sorta". (4)
Lo stesso Garibaldi, prima di diventare "l'eroe dei due mondi" era considerato un criminale, avendo praticato il traffico di schiavi e il saccheggio mediante la "guerra di corsa" per conto degli inglesi. Nell'America del sud era stato arrestato e condannato per aver rubato cavalli. Gli stessi Savoia non lo stimavano granché. In una lettera inviata a Cavour, Vittorio Emanuele II, dopo lo storico "incontro di Teano", si lamentava del comportamento di Garibaldi: "Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene - siatene certo - questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il denaro dell'erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s'è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa". (5)
L'ammiraglio piemontese Carlo Pellion Di Persano ebbe dagli inglesi l'incarico di corrompere ufficiali e politici borbonici. Egli arrivò a Napoli prima dei garibaldini, per corrompere gli ufficiali borbonici offrendo somme ingenti di denaro. Questo spiega il motivo per cui molti generali dell'esercito borbonico si rifiutarono di combattere.
I Borbone, che avevano un esercito di almeno 25.000 uomini, inviarono in Sicilia soltanto 2.500 uomini, probabilmente con l'ordine di non combattere. Le grandi vittorie garibaldine contro l'esercito borbonico sarebbero dunque un'invenzione. Gli sconfitti, come ricorda Gigi Di Fiore nel suo libro "I vinti del Risorgimento", furono in realtà i contadini e i pastori pugliesi, siciliani, napoletani, calabresi, abbruzzesi, campani e molisani.
Dell'impresa dei Mille non si conosce tutto poiché i documenti che accompagnavano la spedizione andarono distrutti. Nel febbraio del 1861 Ippolito Nievo, che era stato responsabile amministrativo dei Mille, fu incaricato di recuperare tutta la documentazione amministrativa per portarla a Torino. Stranamente, il mese successivo, la nave su cui si trovavano i documenti affondò, e non venne recuperato né il relitto, né i morti e i loro beni. In tal modo rimasero sepolti nel mare documenti riguardanti l'impresa dei garibaldini.
Ciò che sappiamo per certo è che i Mille commisero massacri, soprusi, saccheggi e violenze, in seguito ai quali si formò una vera e propria resistenza popolare, capeggiata da ex garibaldini o da contadini, come Carmine Crocco, Nicola Summa e Domenico Romano, che liberarono molti paesi, prima di essere sconfitti.
L'impresa militare dei Mille fu diretta soprattutto contro la popolazione, con lo scopo di sottometterla al nuovo potere. Garibaldi, nel 1864, sarà accolto con onore dalla regina d'Inghilterra e dal ministro Henry John Palmerston. In quell'incontro egli ringraziò le autorità inglesi per l'appoggio dato alla spedizione dei Mille.
I garibaldini combatterono contro contadini e pastori, che non erano fervidi sostenitori del potere borbonico. I contadini non volevano riportare sul trono i Borbone, ma volevano le terre e la libertà. Cipriano La Gala, un capobanda, ad un avvocato inviato dai Borboni disse: "Tu hai studiato, sei avvocato, e credi che noi fatichiamo per Francesco II?"
La reazione piemontese alla resistenza fu feroce: interi paesi furono distrutti a cannonate e molti dissidenti furono catturati e fucilati, anche quelli che non avevano imbracciato le armi.
Le popolazioni venivano terrorizzate con distruzioni, saccheggi, stupri e ogni genere di violenza. Ad esempio, il 14 agosto del 1861, a Pontelandolfo e Casalduni si ebbero incendi di case, saccheggi, violenze e stupri. Oltre cento persone morirono, alcune delle quali furono decapitate per poter esporre le teste mozzate come deterrente alla resistenza. Le persone che commisero questi crimini sono le stesse celebrate come eroi e il cui nome è ricordato nelle nostre vie e piazze.
Nell'estate del 1860, scoppiarono tumulti nelle zone della Sicilia più povere: Ragalbuto, Polizzi, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Castelnuovo, Montemaggiore, Capace, Castiglione, Collesano, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara li Fusi, Nissoria, Cerami e Mistretta. Erano tutti paesi costretti da tempo a subire le angherie dei mafiosi e a vivere nella più totale miseria. Ora chiedevano giustizia e libertà, e si mostravano disposti a combattere per riavere le loro terre.
I contadini siciliani volevano le terre che erano state loro sottratte attraverso "donazioni" che la Chiesa o i Borbone avevano fatto ad aristocratici locali o stranieri (soprattutto inglesi). Nell'agosto del 1860 Nino Bixio represse nel sangue le proteste a Biancavilla, Cesarò, Randazzo, Maletto e Bronte. In quest'ultima località si trascinava da molti anni una situazione drammatica: l'intero paese era stato occupato dai parenti di Nelson, in seguito alla concessione di un feudo da parte del re Borbone all'ammiraglio Nelson. Era sorta la ducea di Bronte, che pretendeva tasse altissime e costringeva la popolazione a vivere in totale miseria. Impropriamente, si definirono i contadini brontesi "comunisti", ma in realtà essi volevano semplicemente una parte delle terre usurpate, e non avevano intenti ideologici.
Con l'avvento di Garibaldi, i contadini siciliani si erano illusi di poter avere quella libertà che chiedevano. Con un decreto, Garibaldi abolì la tassa sul macinato e ogni altra tassa imposta dal potere precedente. Il 2 giugno 1860 emanò norme per la divisione delle terre dei demani comunali, assegnandone una quota ai combattenti garibaldini o ai loro eredi, se caduti. Con queste riforme Garibaldi accrebbe la sua popolarità, e accese le speranze dei siciliani, che però ben presto dovettero accorgersi che le riforme erano state soltanto un atto propagandistico, poiché le tasse da pagare erano quelle di prima e la redistribuzione delle terre non era avvenuta.
A Bronte i contadini avevano fatto ricorso alla giustizia, sostenuti dall'avvocato Nicola Lombardo, ma tutte le cause intentate contro gli usurpatori delle loro terre erano fallite. L'unica strada rimasta era quella della sollevazione.
La repressione di Bronte fu feroce, gli insorti furono massacrati durante i tumulti o arrestati e fucilati in seguito. Furono fucilate almeno cento persone, che in nome dei principi propugnati dallo stesso Garibaldi si erano riappropriate di alcune terre usurpate dai parenti di Nelson.
La responsabilità del massacro di Bronte sarà attribuita a Nino Bixio, che in una serie di lettere documentò gli eventi che portarono al fatto criminale. Ad esempio, in una di queste, scritta il 7 agosto 1860 e inviata al maggiore Giuseppe Dezza, dice di aver messo le "unghie addosso a uno dei capi". Si raccontò anche l'episodio del garzone che chiese il permesso di portare due uova all'avvocato Lombardo, che si trovava in carcere, a cui Bixio disse cinicamente: "altro che uova, domani avrà due palle in fronte!". Lombardo sarà fucilato insieme ad altre quattro persone, accusate di aver organizzato la rivolta a Bronte.
Bixio aveva in realtà obbedito al diktat "Italia e Vittorio Emanuele" che veniva indicato in tutti i decreti come formula che conferiva poteri pressoché assoluti al fine di imporre l'occupazione in vista dell'unificazione dell'Italia. Nell'art. 1 del decreto del 17 maggio 1860 si legge: "Durante la guerra, il giudizio dei reati...", tale decreto avrà efficacia anche dopo la "sconfitta" dell'esercito borbonico. Da ciò si inferisce che l'occupazione delle terre veniva considerata uno stato di guerra, e le popolazioni "ribelli" dovevano essere trattate come combattenti in guerra. Tutti coloro che si ribellarono al potere sabaudo furono trucidati, repressi, oppure fucilati dopo un processo sommario nei Tribunali di guerra. In altre parole, il popolo italiano fu considerato come un nemico in guerra, e non come compartecipe ai fatti unitari. Nelle sollevazioni, il popolo faceva richieste economiche precise, e la repressione scattava affinché queste richieste venissero ritirate, in quanto non c'era alcuna intenzione da parte dei Savoia di rispettare la sovranità popolare o di rendere più equa la situazione economica dell'Italia.
I massacri della popolazione e le condanne a morte venivano attuati in nome del re (che soltanto con la legge 17 marzo 1861 n. 4671 diventerà ufficialmente re D'Italia), sulla base del decreto 17 maggio 1860 n. 84, da cui si legge "Le sentenze, le decisioni e gli atti pubblici saranno intestati: In nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia".
Dietro le scene c'era il Console inglese, John Goodwin, che faceva continue pressioni affinché Garibaldi e l'allora Ministro dell'Interno Francesco Crispi tutelassero a tutti i costi gli interessi agricolo-patrimoniali dei Nelson. Nelle lettere, Goodwin invita a punire l’avvocato Nicola Lombardo: "arrestare l’autore di tale assassinio onde essere giudicato dall’autorità competente e condannato. (6)
I nobili inglesi avevano molti interessi in Sicilia, e permettere ai contadini di appropriarsi di alcune terre da loro occupate significava scatenare una catena di eventi che avrebbe indotto il popolo ad appropriarsi anche di altri beni usurpati da famiglie inglesi, come le miniere.
I fatti di Bronte furono considerati di poco conto e posti sotto silenzio dalla storiografia ufficiale, soprattutto per il grande prestigio che avvolgeva il mito di Garibaldi e dei Mille. I fatti furono in parte chiariti soltanto da uno studioso di Bronte, il professor Benedetto Radice, che pubblicò nell'Archivio Storico per la Sicilia Orientale, nel 1910, una monografia dedicata a Nino Bixio a Bronte (1910, Archivio Storico Siciliano).(7) Dopo questo scritto, molti sapevano dell'eccidio, ma nessuno storico considerò questo e altri fatti per modificare l'interpretazione del Risorgimento italiano.
Secondo Gramsci i fatti di Bronte avevano una valenza politica nazionale: "Fu il dramma di una parte della sinistra impegnata a decidere in Sicilia il nodo dell’egemonia politica del nuovo Stato, ovvero se dovesse essere governato dalla sinistra o dalla destra. Bixio a Bronte reprime i suoi stessi compagni: l’avvocato Lombardo era dalla parte di Bixio".(8)
Si trattò dunque della scelta di istituire uno Stato autoritario e repressivo, volto ad impedire ogni progresso economico e politico. Spiega Antonino Radice: "Contro i diritti primari della gente siciliana Garibaldi scelse quelli impropri dei cittadini inglesi, che furono anteposti così alle genti della zona etnea... La plebe... non vedeva in Garibaldi solo il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura tirannide, la miseria".(9)
La dura repressione dei brontesi doveva fungere da deterrente per quei comuni, come Castiglione di Sicilia, Linguaglossa, Adrano e Centuripe, che si stavano sollevando.
Nell'ottobre del 1985, il Comune di Bronte pose un monumento alla memoria delle vittime del potere sabaudo. Sulla targa del monumento si legge: "Ad perpetuam rei memoriam che nell'agosto 1860 di cittadini brontesi donò la vita in olocausto - Amministrazione Comunale - 10 ottobre 1985". Ciò nonostante, a pochi metri è rimasta una strada dedicata a Bixio, segno che la Storia del nostro paese non è stata ad oggi compiutamente chiarita e demistificata. I presunti eroi, nonostante l'accertamento dei fatti, non sono ancora stati declassati a criminali, e ancora oggi molte strade e piazze portano i loro nomi.
La resistenza antipiemontese fu molto forte anche in Campania, dove furono massacrate almeno 150.000 persone, completamente cancellate dalla memoria storica italiana. Nel napoletano, quasi ogni famiglia ebbe un morto per la resistenza antiunitaria. Migliaia di persone, notabili, artigiani, commercianti e preti, furono arrestate soltanto perché non favorevoli all'unificazione. Racconta lo studioso Antonio Ciano:

"Le carceri dei piemontesi erano simili a lager. I prigionieri non potevano scrivere né ricevere visite dei parenti o di avvocati, non potevano leggere libri né giornali. Gente onesta, preti, uomini di cultura, militari, avvocati, medici, commercianti, operai, contadini, bambini figli di partigiani o solo nipoti di secondo e terzo grado di manutengoli erano tenuti assieme ad assassini, ladri e malfattori. Le celle erano zeppe, non c'era spazio nemmeno per dormire ed i pidocchi e le zecche imperavano sui corpi nudi del popolo meridionale. Il fetore si alzava dalle carceri; si sentivano urla, a volte i prigionieri esasperati si impiccavano; a volte venivano presi e fucilati per far posto ai nuovi venuti. I carcerieri erano delinquenti e camorristi assoldati dal regime piemontese per premiarli della loro servitù... Il Mezzogiorno d'Italia era diventato il luogo dove si ritornò a sperimentare la tortura, l'incatenamento; il Sud era diventato un inferno dove anche preti e bambini venivano immolati alla causa della patria. I Savoia furono i maggiori responsabili... fecero subito rimpiangere i Borbone: ruberie dappertutto, assassinii, fucilazioni, debiti nei Comuni, nelle Province, nello Stato... distrussero in poco tempo l'economia del Meridione".(10)

Alla fine del 1861, i registri ufficiali notificarono l'uccisione di 1826 persone e l'arresto di 4096. Ma erano escluse dal conteggio le persone uccise o arrestate in numerosi tumulti avvenuti a Benevento, a Caserta e in numerose altre località. L'allora ministro della guerra Alessandro Della Rovere, disse in Parlamento che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, erano stati imprigionati in varie località italiane perché non si erano sottomessi al potere piemontese. C'erano anche migliaia di profughi dei paesi saccheggiati e distrutti.
Si scatenò una furia repressiva immane contro chi non si piegava al nuovo potere, e spesso venivano arrestati i parenti dei resistenti, anche se non c'entravano nulla. La caccia al "brigante" era fatta senza alcuna regola né alcun rispetto dei diritti fondamentali. Il 12 febbraio del 1862 il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, emise un bando per distruggere il brigantaggio, le cui parole fanno intendere il livello di crudeltà scatenato:
"Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti".(11)
Per la repressione furono stanziate sempre più risorse. Nell'agosto del 1862 fu approvata una legge che permetteva una “spesa straordinaria” di lire 23.494.500 per l’acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle guardie nazionali che sarebbero state mandate nelle zone in cui c'era brigantaggio. I soldati inviati nel sud aumentarono da 22.000 (1861) a 120.000 (1863).
Il brigantaggio esisteva anche prima dell'Unità d'Italia. Nell'Italia dell'Ottocento, ben prima del Risorgimento, esistevano zone in cui gli abitanti si mostravano sempre meno disposti ad accettare un potere iniquo imposto dai nobili locali e stranieri. Le lotte contro il sistema feudale non erano certo una novità, tuttavia, a metà dell'Ottocento il popolo iniziava ad essere più disposto a rischiare per cambiare le cose.
Il brigantaggio fu utilizzato per reagire al nuovo sistema di potere, che si stava svelando peggiore persino del precedente. Per aggiungere la beffa al danno, l'oligarchia di potere fece in modo da confondere "mafia" con "brigantaggio", nascondendo che si trattava di fenomeni assai diversi: il primo voluto dall'alto per la difesa dei beni sottratti al popolo, il secondo come organizzazione di lotta contro il potere.
La confusione dei termini permetteva di criminalizzare gli oppositori, proprio come oggi avviene col termine "terrorista", utilizzato alla stessa stregua per indicare sia la resistenza nei paesi occupati che coloro che organizzano attentati contro i popoli. Il criminalizzare i contadini aveva lo scopo di giustificare le repressioni e scoraggiare il sostegno. Nonostante la propaganda, molti sapevano che i "briganti" erano coloro che rivendicavano la libertà e lottavano per una vita meno misera. Scriveva nel 1863 il poeta e scrittore Francesco Saverio Sipari:

"Chi sono i Briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d'uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio di morte o dal ladroneccio feudale o dall'usura del proprietario o dall'imposta del comune e dello stato... il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali, che ne abusano e la fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari. Non è cosa così difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante... Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche dell'Austro-Francia".(12)

Il brigantaggio diventò uno degli argomenti principali del Parlamento italiano. Il deputato Giuseppe Ferrari, nel novembre del 1862, riferì in Parlamento: “Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli… Che cos'è in definitiva il brigantaggio?… È possibile, come il governo vuol far credere che 1.500 uomini comandati da due o tre vagabondi possano tener testa a un intero regno, sorretto da un esercito di 120.000 regolari? Perché questi 1.500 devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di 5000 abitanti completamente distrutta [Pontelandolfo]. Da chi? Non dai briganti”.
Il 29 aprile 1862 lo stesso deputato disse che “intere famiglie sono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno è fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi.” (13)

La "lotta al brigantaggio" si trasformò in una vera e propria guerra dell’esercito sabaudo contro il popolo. Racconta lo studioso Aldo De Jaco:

"Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei "cafoni" (contadini nda) con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti". (14)

Durante la guerra contro il brigantaggio, se da un lato i francesi e gli inglesi si ergevano a giudici dell’operato del governo italiano, dall’altro utilizzavano le difficoltà nel sud per rafforzare lo stereotipo dell’italiano ribelle e mafioso, dando inizio alla tendenza a confondere la ribellione contro il potere con l’organizzazione mafiosa. I fatti di cronaca che riguardavano i briganti suscitarono grande attenzione da parte dei giornali inglesi e francesi. Questi giornali (ad esempio il "Times",) accosteranno spesso, erroneamente, il brigantaggio alla mafia. L’approccio con cui gli inglesi e i francesi tendevano a trattare il problema del brigantaggio aveva una forte impronta razzista, e valutava il fenomeno come un'involuzione dovuta alla inciviltà dei siciliani. Anche altri europei manifestavano un forte razzismo verso i siciliani. Secondo il filosofo Joseph Widmann era evidente che il popolo siciliano fosse ancora primitivo, e aveva donne "megere e scimmiesche".(15) Omologare le lotte dei contadini per la terra con la mafia e la delinquenza significava anche impedire che i contadini dei loro paesi ne seguissero l'esempio. Il razzismo verso l'Italia agevolava il far apparire quelle lotte come dovute alla "barbarie" e all'incapacità di comprendere i moderni principi "liberali". In realtà, era proprio da quei principi che il popolo aveva tratto la forza morale e politica per concepire come possibile un progresso economico e civile.
Anche il duca Alexander Nelson Hood (16) , accostò i briganti ai mafiosi, e attribuì loro gli stessi metodi criminogeni e gli stessi obiettivi. I giornali e la letteratura dell’epoca creeranno e consolideranno lo stereotipo della mafia come frutto popolare dovuto alla povertà e al degrado, e il brigantaggio come fenomeno ad essa legato. Ma tali stereotipi occultavano che il popolo siciliano aveva lottato invano e pacificamente per uscire dalla miseria e dal degrado, ma aveva ricevuto soltanto cannonate. Inoltre, tale immagine della mafia ignorava che essa nasce per il controllo del territorio e per la tutela di interessi privati, e che veniva organizzata e utilizzata dall’élite al potere, locale e straniera. I contadini siciliani erano vittime della mafia, e per loro essa non era affatto vantaggiosa. Paradossalmente, oltre ad essere vittime del controllo criminale mafioso, venivano spacciati anche per responsabili della mafia, come se le due cose potessero coesistere nelle stesse persone.
(continua - PARTE II)

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